Literary Critical Analysis

Emiliano Sciuba: “Nessun cibo sazia quanto la morte”: onirismo e oracoli in Dylan Thomas

 

“Nessun cibo sazia quanto la morte”: onirismo e oracoli in Dylan Thomas

 

 

Dice la Donna:
   Nessun cibo sazia quanto la morte;
   Dolce è il sangue di cera, come miele la carne putrefatta;
   Nessuna fontana sgorga dalla terra
   Fresca come le fontane rosse-cera delle vene;
   Nessuna culla è più calda di questo seno morto,
   E nascosto dietro alla fortezza delle costole
   Giace il cuore pronto per la bocca del corvo,
   E spenti dentro al volto in rovina
   Gli occhi osservano i giochi del falco.

   Il cecchino lo ha steso e ne ha spappolato le cervella;
   Difficile pensare che il verde di questa valle

   Potrebbe un giorno ammalarsi di tutto quel sangue;
   Ciò che furono giovani arti sono ora sterpi sulla terra,
   Giovani viscere si seccano sotto a un sole nauseato.
   O Dio del massacro, non farmi pensare

   Ai corvi sulla carne e sui nervi dell’eroe
   Che beccano e vi nidificano tutta la notte.

   L’erba che lui ricopre è di un bel verde;
   Possiede la luna immobile e un centinaio di stelle;
   Conosce i saprofagi del cielo,
   E sulle sue spalle cade il loro mondo alato,
   E sulle sue orecchie gli osanna della tomba.
   La sua casa angusta ha per mura lame d’erba,
   Per tetto il cielo ed è decorata con ossa bionde;
   Gli uccelli gli creano sudari di piume,
   Tela cerata di erbacce, e un letto di escrementi.

   Da quando la prima carne dell’uomo fu squarciata
   Dal fulmine-bisturi di un cielo disfatto
   E il midollo dell’uomo reso spinoso e il petto lacerato da un ferro,
   Tutto ciò che fu amato e amò divenne mangime per uccelli,
   Il lutto – ferita aperta – ha urlato al cielo.
   Nessun cibo sazia quanto la morte;
   L’appetito della morte è acuito dal pollice del proiettile;
   Già è morto e di nuovo dall’utero di una donna
   Ha fame di movimento, e le mie labbra solitarie
   Hanno fame di lui che concima le vallate.

   Non ci saranno pianti silenziosi sui suoi terreni,
   Il dolore non avrà parole, nessun vestito a lutto;
   La pioggia deturperà e coprirà, il vento porterà via
   La polvere più triste di questo mondo vano.

   I vecchi, il cui sangue circola male nelle vene,
   Che il cancro falcia e il cui alcolismo deteriora, muoiono;
   Muoiono quelli che scavano l’ultima dimora dell’uomo;
   Muore il cecchino; le dita dal cielo
   Strangolano i bambini piccoli nei loro letti;
   Un giorno il corpo della mia donna sarà gelido.

   Così sono arrivato a sapere, ma sapere è patire;
   So che l’età è neve sui capelli,
   Rughe incise dal vento attorno a una bocca cadente;
   Il giovane corvo banchetterà ma dove vorrà lui.

   Da quando il primo utero sputò fuori il cadavere di un neonato,
   Il pianto della madre ha infuriato sui venti;
   O venti di mare, trascinatemi a riva il suo grido;
   Liberate il suo diluvio di lacrime così ch’io possa annegare.

   Era una notte desolata quando la prima carne morì,
   E falchi come raggi scesero ringhiando dal cielo;
   Apparve un topo con un dente d’avorio
   E i corvi nutrirono i loro piccoli di caramelle.

   Oh palma della terra, cospargi il mio capo
   Di quella tua polvere, oh, spargine un po’ verso sinistra;
   Lascia che si corroda nei miei capelli ciò che resta
   Di quel primo miracolo. Che io possa imparare
   Il miracolo dell’uomo, lascia che quella prima polvere
   Mi annunci colui che sfama gli uccelli furiosi.

 

   La poesia The Woman Speaks, datata luglio 1933 (The poems of Dylan Thomas, a cura di D. Jones, New Directions, 2003), esplicita il mondo onirico di un Thomas neanche ventenne ma già saldamente formato nella propria imagery fatta di temi ricorrenti come il mistero della nascita e il dramma del divenire, la consunzione del tempo e la condanna della morte, l’innocente peccato della carne e l'eterotopia dell'amore che vive la propria pluridimensionalità di luogo “altro” e di mondo dentro al mondo. Nello specifico, cerchiamo di enucleare dieci elementi cardine della visionarietà thomasiana, qui ovviamente presenti: l’elemento ferino che, come in un bestiario medievale, simboleggia le pulsioni; l’elemento multiforme del “rosso” che dà e che toglie la vita; l’elemento naturale, perlopiù marino o vegetale (l’attaccamento al terrigno); il tempus hedax (il dramma della caduta nel tempo); l’elemento amoroso e il rimando anatomico (la carne come fede pura); l’abisso di morte, limite anfibio dell’uomo e del Cristo; l’elemento della donna rovinosa come parossismo della miseria dell’uomo-sognatore; l’elemento dell’infanzia e il mistero del pre-nascita (precario, insondabile, letale, inquieto, magico); l’elemento della violenza di ogni forma di esistenza, correlativo oggettivo del caos del Reale; l’elemento religioso, biblico o pagano purché serbatoio archetipico cui attingere, per tentare di razionalizzare un mondo entropico, da mitografo contemporaneo quale è il poeta di Swansea.

   La lirica in questione, presente nell’antologia di inediti thomasiani a mia cura per Feltrinelli (in press gennaio 2024) e già enigmatica dal titolo, si apre in maniera lapidaria e oracolare: non c’è entità organica o inorganica del mondo che non sia condannata al proprio termine, motivo per il quale non vi è cibo che sazia più della morte in quanto fine delle urgenze. Realizzato l’abisso cui tende ogni nascita o creazione sotto lo stesso sole nefasto, anche laddove vi fosse stato un locus amoenus esso può diventare horridus a causa della sozzura del sangue riversatovi da corpi esanimi. Chi muore torna nel grembo del mondo con un grido di gioia (osanna) quando gli uccelli saprofagi ne vengono a divorare i brandelli di carni, briciole bionde e odorose come i fiori che si stagliano in quel sudario di piume, erbe ed escrementi come esequie: così termina la prima metà della poesia.

   La seconda metà assume un tono che da oracolare si fa ancora più onirico, in quanto indaga la morte sub specie aeternitatis a partire dalla prima morte dell’uomo: l’oscurità squarciata da un fulmine seghettato, il midollo spinale dell’uomo nella sua accezione denotativa e connotativa di cervello reso spinoso e infine il ferro che ferisce il torso sono immagini tanto riferibili alla nascita di un neonato durante un parto quanto al supplizio di Gesù Cristo, la cui morte incarna un lutto morale eterno ma silenzioso (il nichilismo manifestato rimonta al ciclo naturalistico e materialistico di nascita-crescita-distruzione: il mondo antropico è vano nella misura in cui l’uomo cerca di eternarsi).
Scoperta l’essenza della vita come conoscenza della morte, cioè come limite della vita stessa che muore e rinasce propagandosi lucrezianamente in perpetuum, Thomas elenca alcuni correlativi oggettivi della condanna dell’uomo: i “vecchi” uccisi dalla malattia (involontaria) o dal vizio (volontario); i becchini fratelli della tomba (moniti viventi della fine); gli assassini (sangue chiama sangue, come ricorda Eschilo, tanto caro a Thomas sia nel verso «sapere è patire», così tradotto per ricalcare l’esatto πάθει μάθος dell’Inno a Zeus (parodo dell’Agamennone, v.177), sia nella coeva e complementare lirica di luglio 1933 Greek Play in a Garden riferita alla Elettra di Sofocle; il divino (l’infinito volendo superare il finito lo riafferma ugualmente); la donna amata, il cui calore presto raggelerà quanto più ora scalda (Eros e Thanatos). Sapere la vita obbliga a patirne il ritmo feroce.

 

   Infine, la lirica termina esattamente sul compromesso tra l’onirico e il sibillino, il pensiero dell’uomo e la parola del dio (che è qui inteso nell’ultima strofa come il Dio cristiano vittorioso sulla vanità polverosa e umbratile delle creature terrene): che il miracolo della resurrezione possa blandire anche l’uomo, liberandolo dal timore della morte ed eguagliandolo così, in un certo modo, al divino stesso, di cui i cristiani – tra cui Thomas, suo more – venerano la croce simbolo della morte.

 

EMILIANO SCIUBA, Italy

 

#dylanday

 

Emiliano Sciuba (Roma 1994), docente di ruolo liceale di lettere antiche e moderne, ha ottenuto il titolo di dottore magistrale in Filologia moderna presso l’università “Sapienza”  con una tesi che esamina in modo inedito l’orfica costellazione critica di Alda Merini,  supportato in ciò dalle competenze antichistiche della triennale in Lettere classiche presso lo stesso ateneo. Si occupa principalmente della presenza classica nelle letterature e nel pensiero moderni e postmoderni– ricezione, adattamento e trasformazioni nei diversi linguaggi, media artistici, epoche e culture; indaga nel campo della critica letteraria e della letteratura comparata le nuove espressioni poetiche (p.es. musicali), inoltre lavora alla traduzione di lingue antiche e moderne.